Sarà presentata sabato 9 febbraio (ore 18,00), alla libreria Verso di Milano (corso di Porta ticinese, 40) la rivista Lo stato delle città. Alcuni tra i redattori discuteranno del lavoro dei primi due numeri con Maria Pace Ottieri. Pubblichiamo a seguire un estratto dell’articolo Milano, la torre degli sfrattati dà scacco al re (del mattone), di Gloria Pessina.
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“Milano, gli attivisti di ‘Aldo dice 26×1’ occupano la torre Ligresti”, titola La Repubblica del 5 settembre 2018. “Gli sgomberati di Sesto San Giovanni occupano Torre Ligresti”, fa eco Il Giornale, spostando l’accento sull’azione delle forze dell’ordine nella ex Stalingrado d’Italia. Nel giro di poche ore il fatto viene ripreso dai principali mezzi d’informazione e in tutta Italia si viene a conoscenza delle oltre cinquanta famiglie che dal 2014, con il sostegno di Unione Inquilini e Clochard alla Riscossa, trovano sistemazione temporanea in edifici dismessi o mai utilizzati a Milano e dintorni.
Sfrattati per morosità incolpevole dalle loro abitazioni, i nuclei familiari di Aldo dice 26×1, in prevalenza stranieri, sono in lista per l’assegnazione di una casa popolare. Nell’attesa, animano un “residence sociale” informale. L’amministrazione meneghina lo sa, apprezza l’esperienza, ma non condivide la prassi delle occupazioni – sei nel giro di quattro anni, di cui tre tra la fine di agosto e l’inizio di settembre. Il collettivo, che prende il nome da una frase in codice usata dai partigiani in tempo di guerra, nel 2014 occupò un edificio dismesso a Sesto San Giovanni, a nord di Milano. Sfrattati dopo poco più di un mese, si stabilirono in un palazzo dell’Alitalia nelle vicinanze, vuoto. Da lì nel 2016 le famiglie si spostarono a Milano, zona Corvetto, in uno studentato finito ma mai collaudato. Fino all’ultima settimana di agosto 2018, quando si sono mossi verso un altro quartiere di Milano, poi di nuovo verso Sesto San Giovanni, per approdare infine alla Torre Ligresti.
Per chi conosce poco Milano la Torre Ligresti non sarà poi molto diversa da uno dei tanti edifici apparsi in città negli ultimi anni o ancora da finire: Torre Hadid, Torre Isozaki, Torre Libeskind, Torre Generali, Torre Unicredit, Torre Diamante, Torre Unipol… Per chi invece Milano la frequenta almeno dagli anni Ottanta, la Torre Ligresti evoca un’immagine molto chiara e un dubbio: quale tra le tante? Edifici piuttosto alti, tra i dieci e i venti piani, non proprio slanciati, interamente ricoperti da vetri specchiati tendenti all’azzurro o più spesso al marrone. Torri mai sole, sempre a grappoli di tre, cinque, sette, a volte anche otto, spesso ai margini della città, o meglio ai suoi ingressi. Queste sono le torri per uffici costruite dall’ingegnere di Paternò tra la fine degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta a Milano e che gli valsero, già dal 1985, il titolo di “re del mattone”.
Alle porte della città
Alcuni degli articoli sull’occupazione aggiungono un dettaglio importante: il gruppo di famiglie di Aldo dice 26×1 si è spostato nella Torre 3 del complesso di via Val Formazza, dalle parti di via Stephenson, in zona Expo. Riesco ad andarci solo il sabato successivo all’occupazione, alle sei del pomeriggio. Per arrivare carico la bici sul Passante ferroviario alla stazione Garibaldi: Lancetti, Villapizzone, Certosa, tre fermate e dopo neanche venti minuti scendo dal treno dalle parti di Quarto Oggiaro. Pedalo tra le case di via Mambretti verso l’ospedale Sacco e appena posso giro sulla sinistra per infilarmi nel passaggio buio sotto l’ingresso in città dell’autostrada dei laghi.
Quando esco dall’altro lato, la luce mi sembra molto più forte di prima, diversa dai soliti tramonti di Milano. Il sole illumina una distesa di binari e qualche treno fermo, carico di cumuli di pietre. Mentre mi lascio alle spalle il sottopassaggio mi abituo a un silenzio surreale, che sostituisce in fretta il rumore delle macchine sull’autostrada. Supero un lungo edificio argentato per la vendita all’ingrosso di moquette, una concessionaria di auto di lusso e un hotel. All’improvviso c’è una pista ciclabile nuova di zecca, eredità di Expo, che si srotola tra capannoni abbandonati e macerie. La lascio nel punto in cui scende sotto i binari e va verso quel che resta dell’Esposizione Universale, mentre alla mia destra sento di nuovo un brusio d’auto. Lo seguo fino a trovarmi a pochi metri dal punto in cui l’autostrada dei laghi forma un groviglio d’asfalto con la Torino-Venezia. Finalmente incontro qualcuno! C’è una famiglia rom intorno a una roulotte bianca. Appena mi avvicino gli adulti si allontanano, mentre i figli continuano a giocare per strada. Chiedo se hanno visto altri bambini e ragazzi lì vicino, dovrebbero essercene molti tra gli occupanti di Aldo dice 26×1. Indicano qualcosa alle loro spalle, senza parlare per non interrompere il gioco: ecco le torri, coperte da una fila di alberi forse pensata per proteggerle dall’autostrada.
Proseguo per cercare l’ingresso: la prima torre è diventata un hotel con ristorante ai tempi di Expo, ma ora non sembra molto frequentata. Alle sue spalle, quasi in fila indiana, ne compaiono altre due. Le tre torri sono collegate tra loro da una struttura in cemento all’altezza del secondo piano, una terrazza forse. Un unico cancello racchiude lo spazio aperto alla base delle torri. C’è una porta accostata e, poco oltre, una donna seduta su un muretto. Sembra stanca, mi fa segno di entrare. «Aldo dice…? Sì, ma io non parlo bene l’italiano, vai da Laura». Si sentono le urla di ragazzini che giocano a calcio tra i pilastri della torre, dove sono accatastati materassi e scatole. Una ragazza ferma la palla per un istante: «È dentro Laura!», e subito ricomincia la partita. La trovo, le suona il telefono in continuazione, ripete il numero delle famiglie. Non ha molta voglia di mettersi a raccontare un’altra volta la loro storia. Mi dice solo che lì i proprietari non hanno mai staccato l’acqua e la luce anche se la torre, che ha più di vent’anni, non è mai stata usata. C’è pure un giardiniere che taglia l’erba regolarmente e un custode che fa la guardia alle torri, ma Aldo dice 26×1 si è già proposto come “custode sociale”: «Così la proprietà risparmia pure!».
Due uomini ci passano davanti trasportando stoviglie e attrezzi vari da ferramenta, uno di loro prova a spiegarmi: «Ma sì, continuavano a tenere tutto in funzione per poter prendere i finanziamenti dalle banche. Come si dice? Fanno parte del tesoretto di Fondiaria queste torri, roba di Ligresti…». L’altro aggiunge: «Sì, magari con queste riescono pure a pagarsi i lavori della Torre Galfa…», ma il primo lo interrompe e mi chiede: «Domani non ce le hai un paio d’ore libere per aiutarci a fare il trasloco da via Oglio? Zona Corvetto. Abbiamo ancora un sacco di roba là e ci hanno dato il permesso di svuotare tutto tra le otto di mattina e le otto di sera. Vieni?».
Ci andrò. Mi rimetto a pedalare e passo davanti ad altre due torri identiche, vuote, circondate da un cancello che le separa da una fila di almeno venti roulotte. Forse è il gruppo di rom che è stato sgomberato il giorno prima in un’altra zona ai margini di Milano, chissà se resteranno qui pure loro o se si sposteranno altrove. È quasi buio quando mi lascio alle spalle via Stephenson e dintorni, la futura “Défense milanese”, come la definì nel 2008 l’allora assessore allo sviluppo del territorio del comune di Milano. Attraverso il sottopassaggio e continuo a pedalare fino a casa nel traffico impazzito del sabato sera.
Il re del mattone
Cerco qualche notizia sulle torri di Ligresti, ne ho lette tante in questi anni, sui giornali, su qualche vecchio libro di urbanistica dell’università, nei comunicati dei collettivi che hanno occupato edifici di proprietà di “mister cinque per cento”. Morto lo scorso maggio all’età di ottantasei anni, Salvatore Ligresti veniva soprannominato così per la propensione a partecipare con percentuali molto basse alle attività di una moltitudine di società e banche, la stessa inclinazione che lo spingeva a comprare lotti di terreno sparsi, anche di piccole dimensioni e spesso di poco valore, ma sempre in posizioni strategiche della città.
Queste cose a Milano le sanno tutti, non vale la pena scriverle. E poi a ricostruire i fatti si perde solo tempo, a Milano è il futuro che conta. Però ancora non ho capito cosa c’entra la torre occupata da Aldo dice 26×1 in periferia con la centralissima Torre Galfa, adesso in ristrutturazione per diventare un albergo di lusso. Non riesco a dormire, tanto vale leggere.
Attivo a Milano dall’inizio degli anni Sessanta, Ligresti inizia presto a lavorare per Michelangelo Virgillito, allora proprietario di Liquigas, società chimica specializzata nella produzione di Gpl. A intercedere per il giovane ingegnere appena arrivato a Milano è Antonino La Russa, a quei tempi direttore generale della società. Tutti e tre provengono da Paternò, in provincia di Catania. Nel ’76 le attività di Liquigas e delle varie società controllate dall’azienda passano a Raffele Ursini, delfino di Virgillito, ma nel giro di meno di un anno una di queste, la Società Assicuratrice Industriale (SAI), passa a Ligresti e con questa l’ingegnere ottiene anche il controllo di un’attività industriale di produzione di ceramiche. L’industria è la Pozzi-Ginori, esito di una fusione avvenuta nel ’75 tra la Pozzi e la Società Ceramica Italiana Richard-Ginori, ceduta nel ’73 a Ursini da Sindona, che la controllava dal ’70 attraverso la sua Finanziaria Sviluppo.
A partire dal momento in cui Ligresti controlla SAI e la Pozzi-Ginori inizia una nuova epoca per Milano. E qui entra in gioco l’urbanistica.
Sono gli anni in cui viene discusso il nuovo piano regolatore. Al governo della città c’è la giunta socialista guidata dal sindaco Tognoli. Nonostante le attività industriali stiano manifestando già da qualche anno segnali di crisi, la giunta, dopo vari confronti con i sindacati, conferma la destinazione industriale delle aree occupate dalle fabbriche (millesettecento ettari) e aggiunge altri centosessanta ettari per attività produttive, dichiarando di voler così tutelare la componente operaia della città. Il piano, nella sua prima versione, prevede anche che il venti per cento dell’edificabilità prevista nelle aree industriali possa essere destinato ad attività terziarie strettamente legate all’attività produttiva, ma già nel ’78, quando il Comune approva il piano, le cifre cambiano. Nelle aree classificate come industriali si passa dal venti al cinquanta per cento di edificabilità da destinare a terziario. Di questa quota il trenta per cento può essere destinato a terziario non direttamente collegato con l’attività produttiva principale. Quindi?
Secondo Federico Oliva, urbanista recentemente scomparso, il nuovo piano avrebbe innescato “la proliferazione di mini-centri direzionali all’interno di molte aree industriali più o meno dismesse, torri di vetro in mezzo alle fabbriche abbandonate […] come nel caso della Richard-Ginori lungo via Ludovico il Moro e via Morimondo, delle Cartiere di Verona in via dei Missaglia, dei vecchi insediamenti industriali lungo via Cavriana, nella zona di viale Forlanini e di via Stephenson, all’ingresso in città delle Autostrade Nord”. Ecco le famose torri di Ligresti sparse per la città, tra cui c’è anche quella ora occupata da Aldo dice 26×1. (continua…)
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