A Forcella, nel 2007, nasce f. pl. / femminile plurale, una delle esperienze teatrali legate al mondo delle donne tra le più vive del nostro paese. L’idea di fondare un luogo in cui le donne, attraverso l’attività di laboratorio, abbiano la possibilità di prendere coscienza della loro condizione liberando energia e creatività, venne a Marina Rippa, artista e attrice che già anni prima aveva costituito a Napoli il gruppo Libera Mente, con l’idea di un teatro come comunità aperta a linguaggi espressivi diversi. Naturalmente, come è accaduto tante volte nella nostra città, poco si è saputo di questo itinerario artistico che – in un luogo agli onori delle cronache quasi sempre per vicende criminali – ha visto nascere laboratori teatrali e progetti ispirati come La scena delle donne, in cui una comunità femminile ha provato – come scrive Annamaria Sapienza nel saggio Il corpo ritrovato sulla rivista Comunicazioni sociali – a mettere in relazione la propria realtà individuale con quella del quartiere.
Ora, per Quartieri di vita, la rassegna curata da Ruggero Cappuccio, questa comunità, a dieci anni dai primi laboratori (che si svolsero anche al Teatro Trianon Viviani) presenta una sintesi del proprio lavoro, dove momenti autobiografici si intrecciano a un’indagine sulle pratiche sceniche come strumento di liberazione. Donne con la folla nel cuore. La scena delle donne dieci anni dopo, è lo spettacolo andato in scena il 16 e 17 dicembre nella chiesa di Santa Maria Donnaregina Vecchia, in largo Donnaregina. In scena ci sono le donne che nel corso del tempo hanno compreso che la creatività e lo stare insieme potevano costituire un antidoto a una vita grigia, in cui le loro esistenze finivano per essere annullate trasformandosi nello specchio deformato dell’universo maschile. La vera rivoluzione per loro è stata riconoscere questa condizione. Il teatro e la pratica di laboratorio hanno dato un senso alla loro vita, spingendole a mettere in scena gli aspetti più segreti della stessa: a cominciare dal corpo, dai gesti e dalla voce, che in loro si distingue per innata espressività.
Marina Rippa ha lavorato sulla naturale propensione delle donne dei vicoli di Napoli a trasformare i propri comportamenti in una recita collettiva. E ha pensato che questo magma indistinto potesse in qualche modo trasformarsi in materia artistica, non separando però la finzione dalla vita, la rappresentazione dalla quotidianità. Sta qui, crediamo, il segreto di questo spettacolo. Un fascino che si avverte già dalle prime scene, quando, nella penombra della chiesa, le donne in fila, e tutte vestite di nero, attraversano lentamente le navate per prendere posto sotto la volta trecentesca della cupola. Inizia da qui il racconto del proprio vissuto artistico e umano; si scandiscono gli anni (il 2007, il 2008, il 2009) in cui è iniziata l’avventura del teatro che ha cambiato loro la vita e le ha portate a viaggiare e a conoscere altre culture. Una di loro, per esempio, ricorda che una volta, nel 2015, col suo gruppo, fu invitata a Taranto, e le prove dello spettacolo si svolsero in treno; come pure, importante per loro è stato scoprire l’interesse per la pittura e amare gli artisti del nostro rinascimento.
Più in generale, ognuna di loro mostra in scena se stessa, la propria condizione di madre o di figlia; una condizione che crea spesso lacerazioni, frustrazioni, rapporti difficili, pur se alla fine sembra prevalere quasi sempre l’autoironia, il sorriso di chi crede che la cosa più importante nella vita sia conservare la propria umanità. Ci sono momenti indimenticabili che ritornano. Come quando inscenano una sorta di teatro delle ombre dietro uno schermo bianco illuminato dalla parte posteriore. Una drammaturgia dei corpi – con gag di esilarante comicità – che mette in scena le tensioni all’interno del nucleo familiare. I padri sono assenti e il conflitto riguarda soprattutto il rapporto madre-figlia, con le ragazze che hanno voglia di libertà e di trasgredire i codici della tradizione: desideri repressi dal pugno fermo delle madri. Nell’attività di laboratorio guidati da Rippa, il flusso dei ricordi non si interrompe mai, perché è la memoria del nostro vissuto che aiuta a orientarci nel presente e a ricostruire la nostra identità individuale e collettiva.
Alla fine, come in una grande discoteca, tutte insieme, le donne, si scatenano in balli sulle note di canzoni popolari che hanno accompagnato momenti indimenticabili della loro giovinezza. La rappresentazione è finita, ma la sensazione che essa sia altra cosa dalla finzione e che riguardi lo scorrere stesso della nostra vita, resterà per molto tempo impressa nella nostra memoria. (antonio grieco)
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