Lo sportello di supporto psicologico per i familiari dei detenuti, da cui prende le mosse anche questa rubrica, va allargandosi progressivamente. Non solo vi partecipano i familiari delle persone uccise dal carcere, ma anche i familiari dei detenuti che vivono un calvario all’interno del sistema penitenziario a causa di patologie non conciliabili con la detenzione, mancanza di cure fisiche e psicologiche. Vi sono inoltre ex detenuti che hanno vissuto l’oscurità delle celle e che condividono la propria storia.
Tutti sono benvenuti a partecipare, ogni contributo è importante. Le riunioni si svolgono ogni venerdì dalle 17:45 alle 20:00. Il link per accedere alla riunione settimanale viene pubblicato qualche giorno prima dell’incontro sul gruppo Telegram “Morire di carcere” e su quello Whatsapp “Sportello di supporto psicologico per i familiari dei detenuti” .
Adesioni e lettere possono essere inviati all’indirizzo e-mail dell’associazione Yairahia Ets (yairaiha@gmail.com). Avvocati, volontari, membri di associazioni, garanti delle persone private della libertà sono invitati a unirsi e a condividere il proprio punto di vista.
Quella che segue è la trascrizione di alcuni passaggi di una intervista a Domenico Porcelli, detenuto rimasto per cinque anni al 41bis in attesa di un giudizio definitivo, e scarcerato nel novembre 2023 dopo che la Corte d’appello di Potenza ha fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso.
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«Il periodo in cui sono stato sottoposto al regime del 41bis è stato estremamente difficile. È credenza comune che questo regime riguardi solo i grandi boss o criminali d’Italia, mentre invece vi finiscono tanti detenuti di altro tipo. Oggi, anzi, il 41bis sembra essere destinato a persone vulnerabili, utilizzato per torturarle psicologicamente e indurle a una falsa collaborazione. Personalmente ho vissuto molto male quel periodo poiché non riuscivo a comprendere il motivo delle falsità e delle cattiverie inserite nelle motivazioni che mi destinavano al 41.
«L’ora d’aria è limitata al mattino, dalle 9 alle 10, a cui si aggiungono brevi momenti dalle 13 alle 14 in una saletta. Non c’è possibilità di partecipare a corsi, attività lavorative o palestra. Queste restrizioni vanno contro l’articolo 27 della Costituzione che sancisce la tendenza della pena alla riabilitazione del condannato. Nel 41bis la privazione di diritti è distruttiva, non può tendere a riabilitare nessuno. Inoltre chi è sottoposto a questo regime è spesso in attesa di giudizio e quindi, per la legge italiana, presumibilmente innocente. A questa presunzione di innocenza viene fatta corrispondere una detenzione durissima, l’isolamento totale in una gabbia, il che solleva interrogativi sulla reale finalità dell’intero sistema.
«Le restrizioni imposte durante il periodo del 41bis sono così numerose che sembra più semplice elencare cosa non mi fosse proibito. Non avevo accesso a nessuna attività, e sia la posta in entrata che in uscita veniva aperta e controllata. Le restrizioni più pesanti ricadevano sulle relazioni familiari. Avevo diritto solo a un’ora di colloquio visivo al mese con i familiari, in un locale con vetro divisorio, telecamere e citofono. Questa restrizione, a oltranza e senza una scadenza, sembra mirata a distruggere psicologicamente l’internato, impedendogli contatti fisici con i propri familiari per la durata del regime e potenzialmente quindi per l’intera detenzione, talvolta per tutta la vita.
«La sola telefonata consentita al mese, di soli dieci minuti, veniva registrata, un altro modo per limitare la comunicazione con i familiari. Le richieste di sostituire il colloquio visivo con un’altra ora di telefonata sono state respinte sulla base di una legge riconosciuta da più parti come sbagliata.
«Le limitazioni ai colloqui con gli avvocati sono altrettanto draconiane. Questi avvengono infatti alla presenza di due telecamere che registrano le conversazioni, cosa che compromette anche il ruolo dei difensori, poiché si può arrivare a conoscere il contenuto leggendo il labiale sia dell’imputato che degli avvocati, indebolendo il segreto professionale e mortificandone la professionalità.
«Per quanto riguarda l’accesso alle cure mediche, prima dello sciopero della fame non ho avuto bisogno di cure particolari. Durante lo sciopero, alcuni operatori sanitari mostravano maggiore preoccupazione rispetto ad altri, ma l’attenzione medica variava notevolmente.
«In cinque anni di 41bis ho potuto vedere la mia famiglia solo una volta all’anno. Le restrizioni e il trattamento riservato ai familiari erano ingiustamente e immotivatamente dure. Nel 2018 ho lasciato mio figlio che era un adolescente, ho ritrovato un giovane di un metro e ottantadue al mio ritorno. Nel 2021 ho avuto un incontro breve con mia madre ottantenne, con i miei figli di sedici e ventuno anni, e con mia sorella, che durante quei cinque anni ho visto solo una volta. Mia figlia, lasciata a diciassette anni, l’ho ritrovata donna, e di lei poco posso dire. I familiari, secondo chi gestisce il 41, vanno privati del diritto di essere trattati come esseri umani con sentimenti ed esigenze, in quanto minaccia all’ordine e alla sicurezza pubblica.
«Lo sciopero della fame l’ho iniziato il 28 febbraio del 2023 come risposta alle falsità presenti nelle motivazioni della proroga della mia detenzione nel regime di 41bis. La Direzione distrettuale antimafia (DDA) motivava infatti la proroga con la presunta presenza di un cellulare e un computer nella mia camera del regime. È praticamente impossibile far entrare un cellulare e un computer in una camera di 41bis, dal momento che non si effettuano colloqui e non si ricevono pacchi.
«Un altro motivo che “giustificava” la proroga era un’intercettazione, erroneamente attribuita a me, riguardante la presunta riorganizzazione di una locale ‘ndrangheta. Gli avvocati hanno dimostrato che non ero io nella conversazione, né ero presente sul luogo, ma il tribunale ha respinto il reclamo, affermando che facevo comunque parte del procedimento a Reggio Calabria, elemento rivelatosi a sua volta falso.
«Anche rapporti disciplinari, trattenimenti mai avvenuti e condanne per reati che mai mi sono stati contestati sono stati utilizzati per giustificare la proroga del 41bis. Con lo sciopero chiedevo una revisione oggettiva delle carte da parte del ministero della giustizia, dal momento che le motivazioni addotte dai magistrati tradivano a mio avviso una cattiva fede nei miei confronti e che non vi era stata verifica alcuna da parte del tribunale di sorveglianza di Roma, che ha ignorato le prove presentate.
«Dopo anni di privazione della libertà nel regime del 41 bis, le conseguenze sulla mia vita sociale e psicologica sono devastanti. La comunicazione diventa un ostacolo, dopo aver potuto interagire per così tanto tempo solo con pochissimi detenuti. Le conversazioni diventano difficili, la mia prospettiva si è bloccata a quel giorno, mentre gli altri hanno proseguito le loro vite.
«Persino il rapporto con la famiglia diventa spaventoso, dopo anni di assenza fisica e di contatto limitato. La paura e l’imbarazzo emergono in ogni piccolo gesto, e anche momenti come il sentire il profumo dei capelli di mia figlia dopo uno shampoo possono suscitare emozioni intense. Queste esperienze mi hanno portato a considerare il regime del 41bis come disumano, poiché priva non solo della libertà fisica, ma anche della capacità di connettersi e relazionarsi con il mondo circostante. Una privazione, questa, che può durare assai a lungo anche dopo la detenzione.
«Anche le modalità di applicazione del 41bis sono state al centro della mia protesta e dei lunghissimi nove mesi di sciopero della fame (che hanno comportato la perdita di ventidue chili). Molti detenuti rinunciano a presentare reclami, poiché sembra inutile di fronte a un sistema che trova sempre un pretesto per confermare le restrizioni, e sul quale non c’è nessuna attenzione. Le dichiarazioni dei politici su questo regime lasciano chiaramente intendere che il suo mantenimento non ha un fine di sicurezza pubblica ma serve a costringere presunti collaboratori di giustizia a interagire con lo Stato, cosa che accade anche con l’ergastolo ostativo.
«Quando la Corte Europea ha dichiarato che il 41 bis non può essere prorogato per sempre, lo stato italiano ha risposto sostenendo che il regime viene rinnovato ogni due anni. Nei fatti, dal 2009, ovvero da quando i ricorsi sono stati spostati al tribunale di sorveglianza di Roma anziché ai tribunali locali, credo non si sia mai verificata una revoca. La discussione sulla revoca o conferma sembra essere un’udienza di facciata, priva di una valutazione reale. Sfido chiunque a trovare un caso di revoca del 41bis dal 2009, quando questo è accaduto è perché ci sono state delle assoluzioni, come nel mio caso, ma non perché i presupposti sono stati considerati venuti meno. Questa situazione solleva interrogativi sulla reale possibilità di revocare il regime e sulla sua effettiva applicazione nel rispetto della giustizia, con buona pace dell’Unione Europea (è interessante leggere i reclami con le richieste di revoca rigettati).
«Dopo la mia protesta, durata nove mesi, spero ci sia una maggiore attenzione verso queste menzogne travestite da verità e che si faccia in modo che coloro responsabili, come la DDA, non possano continuare a essere artefici di questa tortura di Stato». (luna casarotti, yairaiha ets)
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