Ti scrivo questo appunto, del quale dovrai perdonarmi la forma. Ho usato i corsivi a cazzo. L’indicativo e l’imperfetto si picchiano ma ho scritto dall’ufficio e sono stanco per rimetterlo in quadro – mi preme di mandarlo subito. Non ha uno scopo, se non quel collettivo fluttuante di cui in qualche modo facciamo parte. Il titolo potrebbe essere: “I tipi della manifestazione del 26 ottobre che ho visto io” – anche se è sbagliato.
(C’è una cosa che bisogna dire per cominciare. Che accomuna tutti i tipi. Nelle rivolte del passato esisteva un momento in cui si distribuiva la modalità di partecipazione coprendosi il volto. Ricordo la paura, indotta dallo spettacolo, che avevo provato le prime volte verso chi aveva il volto coperto. Nella rivolta dell’anno pandemico i volti sono già coperti. Tutti potrebbero prendere parte da un momento all’altro).
Il primo tipo è l’ultras di destra (ma forse sarebbe più corretto dire della Juve): giovane e conoscitore dello scontro da dintorni dello stadio. (La modalità da dintorni dello stadio: spazio aperto, lancio di bottiglie, arretramento di corsa dalla carica o dal lancio di lacrimogeni, poco dopo avanzare ancora, e avanti, e indietro, così; ci metterei anche cestini divelti – che erano chiusi col lucchetto, quindi inutilizzabili per recuperare le bottiglie). Illuminava con qualche fumogeno la situazione, erano le otto e dieci ora serale. Secondo me ha piazzato la prima carica attraverso piazza Castello con qualche bottiglia, gridando «siete degli schiavi» alla polizia. Otto e un quarto: il dirigente di piazza non ci ha visto più e ha iniziato a roteare il manganello lanciando trenta, quaranta celerini in una carica assurda dall’angolo nord di palazzo Madama fino ai semafori. Mi hanno raccontato che in questi momenti la polizia in borghese afferrava qui e là tra quelli che stavano a guardare e così ha fatto forse dei fermi, forse degli arresti.
Poi mi sono spostato verso piazza Vittorio e ho incontrato il non-violento, secondo tipo. Il non-violento, termine generico ma tutti i termini sono generici, ha formato un presidio vicino alle statue dei militi in piazza Castello, allontanandosi dagli altri gruppi. C’erano diversi cartelli e clown ma non mi sono fermato. Saranno state le otto e venti. (Questa è la modalità che è stata più risucchiata dalla spettacolarizzazione del conflitto. Per me la colpa sta nell’incapacità della classe dirigente di cedere, di mediare, di dare, di ridistribuire; non nella modalità dei lanciatori di bottiglie).
A questo punto un enorme cordone di polizia custodiva l’accesso di via Po da piazza Castello. Non mi è chiarissima la dislocazione di questo contingente, forse proveniva dalla Prefettura e poi si è spostato a dare manforte in piazza Castello, via Roma. Comunque non impediva di passare dalle vie laterali, quindi bastava aggirarlo. (Non avevo mai visto una situazione in cui ci fosse così tanta gente che si sposta da un punto all’altro e rimane comunque in giro; per ore via Po è stata affollata di gruppi e gruppetti). Il mio movimento, ora: avanti e indietro fra le due piazze.
L’adulto, il terzo. Un’ipotesi: commerciante; un’ipotesi: semplice incazzato. Dopo le prime cariche sono migrati in massa da piazza Castello a piazza Vittorio. Sono le otto e trenta, circa. Là stavano in mezzo a una selva di mezzi di carabinieri e polizia, contro un cordone di antisommossa, illuminati dal faro di una telecamera inveivano contro la crisi. Devono aver abbandonato il concentramento di piazza Castello per lo scazzo verso le scaramucce ed erano drasticamente diminuiti di numero al mio ritorno. (Ieri sera ho visto lo smarrimento di chi ha già quaranta, cinquanta, sessant’anni e non ha in nessun modo mai prestato orecchio a ciò che c’è fuori dal positivismo-produttivismo-
Quarto. Il giovane, magari in gruppetto di due o tre, dal liceale all’universitario, che gira con lo smartphone in mano, un po’ fuori posto e anche attentamente vestito. Del tipo: non c’è nulla da fare in giro quindi comunque vado in giro, e stavolta un po’ qui e un po’ lì a vedere la maretta. (Secondo me qui c’è un mare di persone che sono venute su a social e tv spazzatura – la politicizzazione o la tossicodipendenza di consumo saranno il discrimine tra la fine di questo mondo o la sua proliferazione). Gli ultimi due tipi erano dappertutto in via Po.
Back to piazza Castello clashes. Alle nove meno un quarto i primi lacrimogeni spazzano la folla in tre direzioni: via Pietro Micca, via Roma, piazza Castello verso via Po. Io mi sono fermato tra questi ultimi. L’impressione è che il gruppo più giovane-imbizzarrito-che-
La larga mano che spargeva lacrimogeni tradiva l’impossibilità dei blu di battersi sulla superficie piena di ostacoli urbani: jersey anti-attentato, ringhiere anti-attraversamento, fioriere pedonalizzanti, monopattini elettrici. Oggetti stratificatisi con l’ostilità che conosciamo, ma che qui si torce contro.
Un tipo peculiare emerge per assenza: l’abitante del centro. Nella sua indifferenza di tutto fuorché del suo lusso grasso, barricato nei suoi metri quadri ad altissimo valore di mercato, l’abitante di piazza Castello neanche si affaccia alla finestra; anzi, tiene spente le luci del suo belvedere sul mondo scomposto. Probabilmente pensa fuori c’è la guerra e questo capita perché non distingue un petardo dallo scoppio di una cartuccia di lacrimogeni. I quotidiani di proprietà di confindustriali domani confermeranno il terrore della sua vita che è solo più le cose che ha.
Un ragazzo al telefono diceva: «Hanno sfasciato tutte le vetrine di via Lagrange». Allora sono andato a vedere. Sesto tipo. Il ragazzino giovanissimo (potrei sbagliarmi: minorenne) che si lancia al tentativo di saccheggio dei negozi di grandi marchi di via Lagrange (sul giornale dicono via Roma, ma in quel tratto non sono passato). Lancia sampietroni contro le vetrine antisfondamento, dice: «Andiamo a fare un negozio», e quando vede i lampeggianti: «Madama madama madama!».
Via dalla madama, decido di tornare indietro; mi sposto sulla laterale e mi fermo a prendere un sorso d’aria e una boccata d’acqua. Due ragazzetti mi superano correndo, poi si fermano e tornano indietro di qualche passo: «Fratello, acqua fratello». Gli allungo l’acqua. Ne bevono un sorso a testa. Senza mai toccare la bottiglia con le labbra. Poi ripartono di corsa. L’hanno fatto per gentilezza. Per non sporcarmi la bottiglia con loro stessi. Quando domani lo racconterò a mia madre mi risponderà: «Vuol dire che le vetrine di Gucci non sono suo fratello». (Non è una rivolta per il pane, qui non lo è ancora, bensì una rivolta per lo spettacolo. Se rifiuti di vedere questo non potrai neanche avvicinarti: la rivolta del 26 ottobre è una festa. Non è ottenere l’oggetto lo scopo della distruzione; la distruzione è una variante collettiva all’inedia di prospettiva del presente. Comunque vada, nel quartiere ne parleremo per un anno).
Risalendo verso piazza Castello, due note. Prima: non avevo mai visto entrare in campo l’idrante – è così grande che non può girare da via Po nelle laterali. Seconda: due ragazzine attraversano il dehors distrutto di McDonald’s e: «Ma questa è inciviltà!». «No, vaffanculo! È rivolta!». Strada sbarrata (dall’idrante e dai suoi amici), torno indietro e percorro via Cesare Battisti. Ricapito nel cuore della situa.
L’ultras di sinistra, e siamo a sette. Per quasi due ore segue e osserva gli eventi con attenzione, senza immischiarsi nelle modalità che non sono le sue. Intorno alle ventidue lo scontro aumenta significativamente di intensità, diventa riot – e tutti dentro. Un unico grande gruppo, non meno di trecento persone, viene incalzato e spinto ad arretrare da numeri spropositati di antisommossa. Da piazza Castello il gruppo dev’essere stato spinto in via Carlo Alberto, poi in piazza Carlo Alberto dove l’ho ritrovato io. È pura espressione di forze che si contrappongono: la forza dei lacrimogeni a pioggia ad arretrare i neri, a cui basta poco per ingombrare la strada in modo che i reparti non possano attraversarla in corsa.
In piazza Carlo Alberto, nel corpo unico del rivoltarsi, l’ultras di sinistra aggiunge il senso del gruppo e dell’intento comune. In sostanza insegna al gruppo a essere gruppo. Ci sono molti modi di essere in questa parte della rappresentazione: partecipare direttamente alla contrapposizione, osservare, agire sul gruppo contribuendo alla calma che non deve mai diventare panico. «Raga, fuori dalla piazza. Ci chiudono». «Non abbandoniamo nessuno. Aspettiamoci».
(Una volta mi parlasti di un’attitudine di allenamento al conflitto; fu per me la chiave di volta per comprendere questa forma di realtà. La prima volta che il veleno lacrimogeno raggiunge il tuo corpo, quando la celere si scaglia nella tua direzione, parte il panico: è una reazione incontrollabile. Questa è l’attitudine all’allenamento; se c’è da togliersi la paura, voglio togliermi la paura anch’io. Il cuore di quella intuizione è che le regole della contrapposizione politica sono state a tal punto modificate dallo spettacolo che dobbiamo andare a capirle noi stessi, o non riusciremo a vederle davvero). Credo che da piazza Carlo Alberto la cosa sia proseguita perdendo pezzetti un po’ per volta fino a scomparire dietro un dedalo di vie di cassonetti bruciati. Il riot si disperde ed è imprendibile.
Dopodiché mi sono allontanato per recuperare la bici, con la quale ho potuto rigirare tutto il quartiere alla ricerca di uno scontro che era evaporato all’arrivo del coprifuoco. Intanto, del tutto al di fuori da queste dinamiche, gruppi di ragazzetti si ostinavano a tentare di sfondare le vetrine per saccheggiare i prodotti di lusso di cui il resto dell’anno subiscono il bombardamento.
«Andiamo a fare un negozio?».
«Dior raga!».
Verso le ventitré via Carlo Alberto mi ha fatto pensare, per contrasto, a un verso di una versione scartata della Canzone del maggio di De André: Se sono rimasti a posto perfino i sassi nei vostri viali. Ettore, che di cose così ne vede da vent’anni, mi fa presente che «loro hanno paura di questa cosa qua».
Pochi minuti dopo i mezzi e gli uomini (a esser precisi le donne) della nettezza urbana, gli operatori ecologici, stanno ripulendo il caotico del reale per chi dovrà non-vederlo il giorno dopo. (Sono davvero precisi in questa città a pulire quando vogliono nascondere e non pulire quando vogliono mostrare).
Teresa, anarchica pazza, si aggira per le rovine rimettendo in piedi monopattini elettrici e cestini chiusi con il lucchetto. «Posso dire che mi state sul culo tutti?». E poi: «La cosa più difficile è l’amore».
I media staranno dicendo che scontri saccheggi ultras pregiudicati, gli InfoAut che non possiamo trascurare la complessità della fase che si apre – e così via. Il punto è che una verità non esclude l’altra. Tutte sono vere ma nessuna abbastanza grande, precisa e coincidente fino a incorporare tutto. A me premerebbe poter dare un tentativo di spiegarmi quello che accade. Vorrei che non cadessimo nel tranello di dare una narrazione, rendendo impossibili così tutte le altre. Vorrei che componessimo un insieme di figure in un racconto verbale che sia per prima cosa condivisione del trauma collettivo del presente.
Ieri per un lungo attimo sono stato attraversato dal presentimento che le piazze, i riot, le manifestazioni, non possono essere raccontate con un punto di vista individuale. Non basta il cuore di uno per sapere il tutto. Maddalena a inizio serata con un sorriso aveva detto: «Stiamo andando alla stessa cosa». Ognuno di noi era in giro a vedere un pezzetto da qualche parte. Solo rimettere insieme i frammenti visti da ogni frammento può avvicinarci alla complessità di ciò che abbiamo intorno. Soltanto un punto di vista collettivo, fatto dagli occhi di tante persone diverse che si muovono come batteri impazziti nella psico-geografia del rivoltarsi possono arrivare a vedere abbastanza da dare forma a un racconto. O almeno tentarsi una spiegazione.
(Ero perplesso, ricordi, nel farti trascrivere queste parole. Io le ho scritte a te, coi nostri sottintesi e le nostre azioni. Avrei trovato più sensato parlarne con gli altri e le altre anziché con chi non so bene chi. Pazienza, è lo spettacolo). (valerio vallegiulia)
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