Sarà presentato giovedì 22 novembre (ore 19,00) presso il palazzo occupato Cross di salita Arenella 60, il nuovo numero della rivista Lo stato delle città (in libreria dal 25 ottobre nelle principali città d’Italia). Spunto per la discussione sarà l’inchiesta In occupazione o in strada. Le lotte per la casa a Napoli, di Riccardo Rosa, pubblicata all’interno della rivista e di cui proponiamo a seguire un estratto. Oltre ai redattori di Napoli Monitor, interverranno: gli attivisti della campagna Magnammece ‘o Pesone; gli abitanti delle case occupate Cross, Zia Ada, Ex Schipa; i disoccupati del Movimento disoccupati di Acerra.
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Un tavolo, una macchinetta di caffè, tazzine sparse. Quadri e disegni appesi al muro, qualche scultura, macchie di colore. Un divanetto e un piccolo corridoio che dà al piano di sopra. Attorno al tavolo siamo in sei, ma altri abitanti della palazzina si affacciano di tanto in tanto, aggiungendo alla storia qualche particolare, o chiedendo di raccontare la propria. Sono Sarah, Raffaele, Eva, Salvatore, Patrizia, Guglielmo: alcuni degli occupanti del Cross, palazzina abbandonata in salita Arenella, dei cui appartamenti, ancora in costruzione, un gruppo di persone ha preso possesso nel 2014. Con loro ci sono anche Duma, che salta e abbaia credendo di essere a una festa, e Pece, che ha il pelo nero come i capelli di Maradona.
«A Dubai, con i permessi trimestrali, funzionava così: poco prima della scadenza dovevamo partire, passare la frontiera, e dopo qualche giorno rientrare da un altro confine, dove ci avrebbero timbrato il visto e rinnovato il permesso. A un certo punto la ditta è fallita, mi sono ritrovato in Arabia Saudita senza lavoro e con gli arretrati persi, a sessantatre anni. Quello nelle acciaierie non era il mio primo lavoro. Fino al 2000 ho gestito un’attività di ricambi auto ai Colli Aminei. Ricattato dalla camorra, subivo rapine in continuazione. Ho preferito chiudere piuttosto che pagare, e mi sono messo a fare l’operaio, a cinquant’anni, nei cantieri navali. Per dieci euro all’ora mi mandavano ad Ancona, Marghera, Palermo, Genova, in media restavo sei mesi ma anche per periodi di due o tre anni. Trascorsi i mesi del contratto ti licenziavano, e potevano riassumerti dopo trenta giorni. Come facevi a sopravvivere in quel mese, non era affare loro. Così dopo un po’ ho cominciato a lavorare per le acciaierie, facevo gli impianti elettrici. Russia, Ucraina, Arabia Saudita. Posti belli a sentirli, ma quando ci stai per lavorare è diverso. Era un lavoro di responsabilità, ma venivo pagato comunque poco. Ti davano l’alloggio: case sovraffollate, materassi scassati, buttati per terra, e dopo una giornata in fabbrica non è proprio il massimo. Quando la ditta è fallita mi sono ritrovato con due figli di venti e trenta anni, tutti disoccupati, e nessuno che mi voleva assumere perché “ero vicino alla pensione”. Oggi ne tengo sessantotto e non la prendo ancora. Così il tempo passava, il lavoro non usciva ed è arrivato lo sfratto. Dopo cinque mesi ci hanno buttato fuori di casa».
A parlare è Guglielmo, voce ferma e compassata, mani da operaio, capelli brizzolati. Dopo una vita passata a lavorare, l’abitazione ha deciso di occuparla, insieme ad altre persone che fanno parte di una campagna di lotta per la casa, Magnammece ‘o pesone (in napoletano: mangiamoci l’affitto). «Dopo lo sfratto ci siamo trovati senza alternative. Avevo due figli, avevo dormito per terra tanti anni e non era servito. Oggi ho cambiato prospettiva, mi piace pensare che la vita non può essere quella: alzarsi la mattina solo per andare a lavorare, per farsi sfruttare fino all’ultimo».
Coetanea dei figli di Guglielmo è Angela, attivista, precaria del terzo settore in una cooperativa che si occupa di minori in difficoltà. Angela abita in una ex scuola fino a qualche anno fa abbandonata, che oggi ospita venticinque persone tra studenti fuorisede, giovani precari e tre nuclei familiari. «Quando abbiamo occupato, nel 2011, ancora non ero laureata. Ero una studentessa fuorisede in filosofia, pagavo duecentocinquanta euro per una stanza in zona piazza Cavour, senza finestre, a cui aggiungere i soldi per bollette, internet, utenze. Tutto quello che guadagnavo con piccoli lavori lo spendevo nell’affitto, perdendo di vista gli studi».
Quelli di Angela e Guglielmo sono due profili molto diversi, accomunati dall’esigenza di una casa e dalla difficoltà a sostenerne le spese, che hanno trovato soluzione nell’occupazione di uno stabile abbandonato. Anche le due strutture in cui abitano sono diverse, ma entrambe fanno capo alla campagna che gli occupanti tra loro chiamano, per amor di brevità, ‘O Pesone. L’ex scuola Schipa è stato il primo edificio a essere occupato, nel 2011, quando ancora l’idea di costruire un movimento di lotta per la casa non esisteva. Il Cross invece è un edificio privato, oggetto in questi anni di una intricata storia che unisce speculazioni edilizie e finanziarie, procedimenti giudiziari, società fallite e rientrate dalla finestra, indifferenza delle istituzioni.
«Quando siamo entrati nella Schipa – racconta Angela – l’idea di una campagna per il diritto all’abitare ancora non c’era. L’occupante tipo era lo studente fuorisede, spesso impegnato nel movimento o nel sociale, il giovane precario. Consolidata quell’occupazione, abbiamo avviato uno “sportello” aperto all’esterno, e siamo stati sopraffatti. La popolazione colpita dal disagio abitativo è molto eterogenea, e chiede risposte immediate. Così abbiamo cominciato a dialogare con nuclei familiari, lavoratori rimasti senza occupazione o con chi un lavoro ce l’aveva ma portava a casa troppo poco per poter mantenere sé o la sua famiglia».
La prima, più evidente, particolarità della questione abitativa a Napoli, è costituita dal fatto che in altre città in cui l’edilizia popolare riesce – seppur faticosamente – a funzionare, le persone in emergenza, a cominciare da quelle sotto sfratto per morosità incolpevole (è verificata la loro impossibilità a pagare un affitto), vengono sistemate, dopo un percorso di accompagnamento, in una casa popolare. A Napoli le graduatorie sono ferme da vent’anni, inquinate da pratiche clientelari, e mettersi in coda rappresenta più un atto di testimonianza che la speranza di vedere soddisfatto un diritto o un’esigenza. A Napoli, chi viene sfrattato per morosità incolpevole, trova di solito sistemazione da qualche amico o parente, in attesa che la nottata passi. Oppure finisce per strada.
L’identikit della persona o del nucleo familiare in emergenza abitativa non è però solo quello appartenente al proletariato marginale. C’è gente come Guglielmo, che ha lavorato per quarant’anni, o Patti (anche lei abitante del Cross), che non è riuscita più a pagare l’affitto della casa in cui viveva con le figlie a Pianura, in contrada Pisani, «da quando il comune di Napoli ha revocato, a noi come ad altri, i permessi per le bancarelle in Rotonda Diaz. Quello spazio serviva come palcoscenico per “i grandi eventi”, che poi sarebbero le feste della pizza, della mozzarella, e così via. E noi siamo stati cacciati senza troppi complimenti».
In grandi linee, le persone che si presentano agli sportelli del Pesone sono: giovani studenti o lavoratori precari con bassissime entrate mensili; famiglie con un solo reddito, molto basso; persone la cui vita è cambiata in seguito a un evento dirompente: la perdita del lavoro, la morte di un parente, la nascita di un figlio, soprattutto nel caso di madri sole. «La maggior parte delle persone arrivano “chiedendo una casa” – spiegano gli attivisti –, un po’ come se si rivolgessero agli sportelli del Comune. Solo alcuni proseguono un percorso tutt’altro che facile: l’attesa che si formi un gruppo adatto per la convivenza e pronto a un atto di riappropriazione, gli incontri di preparazione che possono durare anche qualche mese, l’accettazione di una condizione di vita non facile, sempre sotto minaccia di sgombero, così come la disponibilità a mettere in atto una pratica considerata illegale, quale è l’occupazione».
«Per comunicare meglio la “riappropriazione” – spiega Angela – ci torna utile l’esperienza dei disoccupati organizzati, che hanno costruito negli anni una sorta di “alfabeto della lotta”. Anche se c’è una differenza di fondo: lì la battaglia era per ottenerlo, il lavoro; nel nostro caso, una volta occupata una casa, la vera battaglia sta nella sua difesa e nel tentativo di riconoscimento».
Casa e lavoro. Due bisogni, una lotta
La storia dei movimenti di lotta per il lavoro si interseca spesso, nella storia della città, con le rivendicazioni per il diritto alla casa. Già negli anni Settanta i disoccupati organizzati hanno un ruolo importante in esperienze come il Comitato unitario di lotta per la casa e nei tanti comitati di quartiere che si organizzano per rivendicare l’assegnazione di un alloggio popolare e per occupare le abitazioni sfitte o non assegnate. Prima e dopo il terremoto del 1980, i disoccupati diventano il volano delle occupazioni abitative in città, e le due lotte parte di un unico percorso politico. Si occupano interi palazzi al Rione Traiano e al Don Guanella a Miano; si occupa a Scampia, ad Acerra (tra il ’74 e il ’78 più di mille alloggi) e a Sant’Antimo. Proprio nei primi mesi del post-terremoto arriva la prima inchiesta giudiziaria per associazione sovversiva legata alle lotte per la casa, che colpisce gli esponenti principali dei disoccupati di Banchi Nuovi. I crolli e le condizioni fatiscenti dei palazzi storici, le centinaia di miliardi stanziati per l’edilizia popolare (unite alle negligenze e ai ritardi nelle assegnazioni), la creazione di campi-container e l’espulsione di migliaia di abitanti dal centro, sono la spinta per occupazioni non solo di case popolari non assegnate, ma anche di case private sfitte, anche in quartieri residenziali. Appartamenti la cui proprietà era spesso riconducibile ai grandi costruttori, da Sagliocco agli eredi della famiglia Lauro, fino al presidente del Napoli, Corrado Ferlaino.
«Organizzavamo cortei con centinaia di persone – spiega Mimmo Lopresto, ex militante dei Banchi Nuovi e ora segretario dell’Unione Inquilini – e andavamo a prenderci le case. L’importante era entrare portandosi dietro qualcosa: materassi, reti dei letti, mobili. Una volta arrivammo in queste condizioni fino a Posillipo, dove occupammo le case di Sagliocco. La gente del palazzo era sconvolta: al terzo piano trovavi il notaio o il magistrato importante, e a piano terra c’eravamo noi, con la signora Titina e le sue sigarette di contrabbando». (continua…)
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