Sarà presentato martedì 14 maggio, alle ore 18,00 alla libreria Tamu, il nuovo numero de Lo stato delle città. Si discuterà, nel corso dell’incontro, del rapporto tra la città e i suoi abitanti più giovani, prendendo come spunto alcuni articoli pubblicati nell’ultimo numero della rivista. Interverranno Riccardo Rosa (Napoli Monitor), Emma Ferulano (Chi rom e… chi no), Salvatore Pirozzi (insegnante).
Pubblichiamo a seguire un lungo estratto dall’articolo Il pugno duro. Storia di Arturo e del processo ai suoi aggressori, di Riccardo Rosa.
* * *
È un pomeriggio di dicembre del 2017. Siamo al centro di Napoli, non lontano dal Museo Archeologico. Arturo, diciassettenne iscritto al quarto anno di liceo scientifico, è in giro per una commissione. Percorre la strada del Duomo fino a via Foria, dove i negozi sono illuminati con luci di Natale non troppo appariscenti. A un tratto viene avvicinato da quattro ragazzi, più piccoli di lui. Tutti, tranne uno, hanno un cappuccio in testa e uno scalda-collo. Uno dei quattro gli chiede l’ora. Arturo sfila il cellulare dalla tasca, gli dice che sono le cinque e ventuno, lo rimette al suo posto e riprende a camminare. I quattro però gli restano alle calcagna. Le domande e le provocazioni sono quelle tipiche di chi vuole dare fastidio. «Ma dove devi andare?», «Dai, vieni con noi!», «Ma te la sei mai fatta una chiavata?». La cosa va avanti per un po’, finché Arturo liquida il gruppetto con un secco: «Adesso avete rotto, fatela finita!». A quel punto uno dei ragazzi, con gli oc- chi azzurri e una felpa grigia il cui cappuccio viene fuori da un giubbotto scuro, tira fuori un coltello. Dice ad Arturo in dialetto: «Io ti uccido proprio!». Il giovane affretta il passo, ma arrivato alla fermata dell’autobus viene raggiunto dallo stesso ragazzo, che gli rifila uno schiaffone dietro la nuca.
Arturo si blocca per un attimo. Quando riprende a camminare, però, si ritrova circondato da due dei quattro e prova a farsi largo spintonandoli. Viene trattenuto per un braccio da quello che lo aveva colpito, che gli immobilizza l’arto contro la schiena e subito dopo comincia ad accoltellarlo alle spalle. Arturo non riesce a muoversi, anche perché ne ha davanti un altro, giubbotto rosso e occhiali, che lo colpisce con un altro coltello. Degli altri due, uno rimane distante, a guardarsi intorno, per avvisare in caso di pericolo o forse perché ha capito che la situazione sta degenerando; sul comportamento dell’altro, non si avranno mai notizie certe. Quel che è sicuro è che dopo nemmeno un minuto gli aggressori sono di nuovo insieme e scappano in direzione della stazione centrale.
Poco prima di imbattersi in Arturo, i quattro avevano provato a litigare, o quantomeno a infastidire, un altro ragazzo, di nome Vito, che era riuscito a distanziarli approfittando del passaggio più fitto di persone. Ad Arturo le cose vanno peggio, e quando i quattro scappano, rimane a terra davanti alla fermata dell’autobus gravemente ferito. Alcune persone si avvicinano per soccorrerlo. Lui riesce a dare il numero di cellulare del- la madre a una di queste, che la chiama per dirle: «Suo figlio si è fatto male giocando a pallone, dovrebbe venire al più presto a via Foria». Sul posto arrivano le volanti, mentre l’ambulanza tarda a intervenire. Arturo e sua madre vengono così accompagnati da un altro passante, in auto, all’ospedale San Giovanni Bosco. Lì il ragazzo finisce in rianimazione, con numerose ferite di arma da taglio al collo, a entrambe le spalle, al torace e al braccio sinistro. La più pericolosa è quella alla gola, ma una legatura della giugulare riesce a salvargli la vita. È necessario anche un drenaggio pleurico, a causa di un distacco della pleura dal polmone. Più o meno in quegli stessi minuti gli agenti della squadra mobile, alla ricerca dei quattro aggressori, fermano in via De Gasperis, nei pressi di via Foria, “imbeccati da una fonte confidenziale”, alcuni giovani.
POLEMICHE E INTERROGATORI
L’aggressione ai danni di Arturo suscita grande clamore a livello nazionale. Il tema delle “baby gang”, periodicamente ricorrente, è in una fase calda e l’accoltellamento del diciassettenne rinfocola le polemiche. Maria Luisa Iavarone, la madre di Arturo, che all’università insegna pedagogia sociale, chiede una «risposta alla città», risposta che arriva, in particolar modo dai ragazzi delle scuole superiori, che manifestano solidarietà al loro compagno attraverso cortei e iniziative pubbliche. La professoressa Iavarone non si sottrae alle interviste, raccontando in molteplici occasioni, nei dettagli, l’accaduto, con l’intento di «smuovere le coscienze» descrivendo la violenza subita dal figlio. Il circo mediatico si fionda su una vicenda che ha tutti gli elementi per risultare appetibile: Napoli, la violenza degli adolescenti, gli ambienti camorristici e la loro omertà, la reazione della parte buona della città, la mancanza di sicurezza nelle strade, l’incertezza della pena, e tanto altro ancora. Se per il sindaco de Magistris la colpa è di Gomorra («Nei giorni successivi alle puntate della serie aumentano le “stese”»), il ministro dell’interno Minniti, con tono solenne, afferma che «non si darà pace» finché non avrà catturato tutti gli accoltellatori; Matteo Salvini, che incontrerà Arturo qualche tempo dopo, getterà la storia del ragazzo in un unico calderone insieme alla camorra e ai migranti del quartiere Vasto.
In telegiornali e programmi di approfondimento, ogni giornalista recita la parte più consona alle proprie attitudini. C’è chi ostenta affettuosità confidenziali da madre di famiglia, in collegamento telefonico con Arturo; chi mostra il proprio dolore socchiudendo gli occhi in favore di telecamera, ogni volta che il racconto della mamma si sofferma sui dettagli più pulp; chi cerca di indirizzare la discussione sull’attualità politica, pungolando la professoressa Iavarone sul suo incontro con Minniti, che le avrebbe promesso cento poliziotti in più a Napoli. Né le cose vanno meglio quando a essere intervistato è Arturo, sulle cui cicatrici le telecamere indugiano, mettendo a disagio il ragazzo, stretto tra due fuochi (la mamma e la conduttrice del programma) che lo spingono a sbottonare la camicia per mostrare le ferite. Per quanto riguarda gli sviluppi del caso, al di là della retorica da stato d’emergenza, l’elemento su cui insistono i media è l’impunità a cui andranno incontro gli accoltellatori, tutti al di sotto della soglia anagrafica prevista dalla legge (notizia falsa nel caso di tre ragazzi su quattro). È attorno a tale questione che si articola un intenso dibattito sul possibile abbassamento dell’età punibile con carcerazione in istituti penitenziari, addirittura per bambini a partire dai dodici anni. Emblematico è un articolo del Roma (20 dicembre 2017, firmato Redazione), che oltre a individuare i responsabili in quattro “ragazzi originari di Scampia” (i quattro aggressori abitano in realtà tutti nel raggio di un chilometro dal luogo dell’accoltellamento), chiosa: “È una storia orribile e drammatica. I quattro non pagheranno mai per quel che hanno fatto, nonostante siano indagati per tentato omicidio. La squallida legge del branco colpisce ancora. E lo fa con scene da vera e propria macelleria sociale”. In questo contesto, in cui tutti si sentono autorizzati a proporre ricette risolutive (più scuola, più “educatori di strada” o più poliziotti), il più lucido sembra essere proprio Arturo, che in più di un’occasione parla di «situazione complessa» e di «una gamma di sentimenti ampia e troppo variegata per essere descritta».
Già dal suo letto d’ospedale racconta agli inquirenti di avere visto, in passato, uno dei ragazzi che lo hanno aggredito. Si dichiara convinto di poterlo indicare e di riuscire a riconoscere anche gli altri tre. Gli vengono mostrati due album fotografici. Prima, però, gli viene chiesto di descrivere gli aggressori. Dalle foto, Arturo riconosce Francesco Chiantone, quello di statura più bassa. La sua partecipazione ai fatti del 18 dicembre verrà confermata anche da Vito, il ragazzo che era stato avvicinato in precedenza dal gruppo. Arturo, evidentemente in condizioni psicologiche non ottimali, riconosce anche un altro ragazzo, Giuseppe L., che però ha un alibi: in quelle ore era sul campo di allenamento a giocare a calcio. Il 24 dicembre, Francesco “Checco” Chiantone, che i ragazzi del quartiere chiamano ‘o Nano, viene rinchiuso nel penitenziario minorile di Airola. Il ragazzo nega di avere partecipato ai fatti. Dice di essere uscito alle sei di pomeriggio per andare in palestra con un amico e di avere incontrato solo dopo i ragazzi con cui è stato fermato dalla polizia. Checco, in effetti, è passato al centro sportivo Kodokan per provare a iscriversi, nel tentativo probabilmente di procurarsi un alibi, ma solo successivamente ai fatti. Nelle settimane che seguiranno ammetterà di avere partecipato all’aggressione, ma di essere rimasto in disparte, non per fare il “palo”, ma perché aveva sentito accorrere qualcuno e aveva paura di essere «preso alle spalle».
Qualche settimana dopo Arturo riconosce anche Gennaro Pipolo. È lui che aveva il cappuccio grigio e gli occhi chiari, che gli ha detto che lo avrebbe ucciso e che lo ha accoltellato alle spalle. Anche Gennaro ha un soprannome. Lo chiamano Tic-tac, a causa dei continui movimenti nervosi del suo corpo e del suo volto. «Sono sempre agitato», dirà al magistrato. «Devo andare da uno psicologo. Ho appuntamento lunedì». Di motivi per essere agitato, Gennaro ne ha un bel po’. Suo padre, dipendente da droghe e alcool, è da sempre violento con lui e con sua madre. Da bambino, Gennaro lo osservava picchiarla in disparte. Poi ha cominciato a mettersi in mezzo. Le turbolenze di suo padre sono state per anni quotidiane, ora forbici alla mano, ora brandendo una bottiglia d’alcol con la quale minacciava di dare fuoco alla casa. Per provocare il figlio, e per offendere quella che poi sarebbe diventata la sua ex moglie, ripeteva continuamente: «Chissà a chi sei figlio… Senti a me, vatti a fare il DNA». Tic-tac, che al momento dei fatti ha sedici anni, ha già un bel po’ di precedenti. Nel 2016 è stato arrestato dopo una rapina all’uscita del Bosco di Capodimonte; un anno dopo è stato denunciato per un’altra rapina, in concorso con altri tre giovani. È affidato in prova ai servizi sociali della municipalità e fa uso frequente di hashish, perché, dice, «è l’unica cosa che mi rilassa».
Gennaro negherà sempre di essere stato presente durante l’aggressione. Dice di conoscere Chiantone perché andavano alla stessa scuola e giocavano a calcio per strada. Dice di essere stato a casa fino alle sei, quel giorno, e che secondo lui sono stati ragazzi di altri quartieri. Sebbene manifestino un’apparente solidarietà tra loro («se sapessi chi è stato lo direi, pure per aiutare Checco»), appena sono messi alle strette i ragazzi provano a difendersi scaricando le responsabilità sugli altri. Lo fa Chiantone, tirandosi fuori dal gruppo degli accoltellatori; lo fa Pipolo, chiamando in causa un nuovo nome, il ragazzo «che accoltellava»; lo farà anche questo terzo ragazzo, affermando, dopo avere inizialmente negato, di essere stato presente ma di non avere mai usato il coltello. Questo scaricabarile, che contribuirà non poco alla pesantezza della condanna, non si manifesta per quanto riguarda il quarto elemento del gruppo. L’ultimo nome rimarrà infatti, per una lunga fase, ignoto.
IL TERZO E IL QUARTO
L’accoltellamento di Arturo avviene nel corso di settimane in cui il tema della violenza giovanile è al centro dell’attenzione. Nei giorni antecedenti, al Vomero, avvengono due episodi simili, slegati da motivazioni strettamente criminali come furti o rapine. Il giorno della Befana, un’altra aggressione si verifica a Chiaia, vittime due giovani appena maggiorenni. Il 12 gennaio, all’uscita della stazione della metropolitana di Chiaiano, una quindicina di ragazzi aggrediscono tre coetanei: due riescono a fuggire, mentre Gaetano, quindicenne, rimane a terra colpito da calci e pugni. Subirà l’asportazione della milza.
Questa “escalation” di violenza viene raccontata secondo un prevedibile copione. Opinionisti e politici chiedono (i primi) e promettono (i secondi) pene inflessibili e severità assoluta per i colpevoli. Come contraltare, di tanto in tanto, la parola viene data a educatori di mestiere, che provano a riflettere sulle condizioni di abbandono dei giovani e sull’isolamento in cui loro stessi si trovano a operare. La loro voce, assai più debole e recante messaggi più complessi, viene recepita dall’opinione pubblica come una fioca richiesta di aiuto, che a lungo andare inasprisce la rabbia di chi individua in quelli che non invocano ergastoli e sottrazioni alle famiglie, degli illusi, e persino dei complici.
L’identificazione del profilo degli adolescenti, diventa elemento non per immaginare strategie di intervento sociale, ma per giustificare una repressione più decisa possibile. Se il magistrato napoletano Quatrano traccia un filo che lega i ragazzini ai militanti della Jihad (in particolare nell’esperienza della “ricerca della morte”), per tracciare questo profilo si ricorre alle fonti più comode a disposizione. La stessa madre di Arturo riprende la tesi di Roberto Saviano (che però si riferiva ai giovanissimi pronti a intraprendere una scalata delle gerarchie criminali), affermando che le aggressioni «sono effettuate da ragazzini che intendono mettersi in mostra sul mercato della criminalità organizzata, affinché gli vengano attributi degli incarichi criminali». Una tale semplificazione non aiuta a interrogarsi sulla provenienza dei ragazzi (non necessariamente riconducibile a famiglie di malavitosi), sulle modalità di azione spesso estemporanee, che riflettono un vuoto che gli interminabili pomeriggi in strada non riescono (anzi) a colmare; sul fallimento scolastico e sull’assenza di una reale formazione professionale, sullo smantellamento negli ultimi quindici anni di qualsiasi idea di stato sociale, sul naufragio di baracconi mangiasoldi come i programmi Garanzia Giovani e Resto al Sud. Tutte questioni che rimangono nelle retrovie, o sono liquidate in poche righe sulle colonne di un quotidiano. Altre polemiche trovano invece spazio infinito, come quella che coinvolge la professoressa Iavarone (rilanciata poi da Maurizio Gasparri), indignata con il comune di Napoli e con lo stesso Saviano perché uno degli aggressori di Arturo, Checco Chiantone, era stato selezionato prima dei fatti di via Foria per recitare una parte nel film La paranza dei bambini. (continua…)
1 Comment