Da oggi, giovedì 6 giugno, è in libreria a Firenze e a Pisa il numero 2 (aprile 2019) de Lo stato delle città. Potete trovarlo al Todo Modo (via dei Fossi, 15/R – Firenze) e alla libreria Tra le righe (via Corsica, 8 – Pisa).
Pubblichiamo a seguire un estratto dell’articolo scritto da Stefano Gallo e pubblicato nella rivista con il titolo Le politiche dei gagé. Il tentativo di superare i campi rom a Pisa
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Il 23 febbraio 2019 l’assessora leghista alla casa e alle politiche sociali del comune di Pisa ha annunciato gongolante la chiusura dello sportello di orientamento e accompagnamento per i cittadini rom. «Abbiamo già deciso di destinare le risorse così risparmiate – si legge nel comunicato ufficiale – al potenziamento dei servizi socio-assistenziali del territorio a disposizione di tutti i cittadini». Si è realizzato così l’annuncio già dato nella scorsa estate sui social dal deputato leghista Edoardo Ziello: «Le politiche a favore dei rom e degli immigrati volute dal Pd hanno le ore contate». Per capire meglio la situazione, è necessario fare un passo indietro.
Questa storia non la dovrei raccontare io. Non mi sento la persona più adatta per farlo. Però questa storia va raccontata, ne sono convinto, e non credo che qualcuno lo abbia già fatto. Dopo un po’ di tentennamenti ho parlato con qualche amico e ho deciso di provarci. Mi hanno aiutato Sergio Bontempelli, operatore sociale da sempre nel movimento antirazzista, e altre persone che preferiscono non apparire. Tenete sempre in mente però che la state ascoltando dalla persona sbagliata.
Un epico inizio
Questa storia ha un inizio (epico), uno svolgimento (tormentato) e una fine (tragica). L’inizio epico risale a più di vent’anni fa e narra di un sindaco che doveva rispondere a un’interrogazione dell’opposizione sulla presenza abusiva di alcune famiglie rom ex jugoslave lungo le aree costiere del territorio comunale. Per verificare la situazione, il sindaco prese la macchina e passò un’intera giornata a girare gli stabilimenti del litorale, facendo domande a tutti gli esercenti. Quindi tornò al municipio e raccontò ai consiglieri che non aveva trovato una sola attività economica che non fosse almeno in parte abusiva: da qui si doveva partire per affrontare la questione dei rom, dal fatto che c’erano abusivi che facevano i soldi e abusivi che scappavano dalla guerra.
In realtà la storia non è andata proprio così, quella che ho appena raccontato è una versione leggendaria dei fatti, come si conviene a un inizio epico. A essere precisi, la lunga ricognizione per tutti gli stabilimenti del litorale il sindaco la fece a seguito di una segnalazione di Legambiente che lamentava i danni alle dune inflitti dall’abusivismo. La situazione risultò effettivamente così grave che quando le opposizioni, in consiglio comunale, provarono a difendere gli esercenti sostenendo che il loro era un “abusivismo di necessità”, il sindaco sbottò e disse che il vero abusivismo di necessità lo conosceva bene, era quello dei rom e non certo quello degli imprenditori. Dopo di che il sindaco, che non era un cuor di leone, subì una tirata d’orecchie dal partito di maggioranza, ma almeno aveva detto un bel pezzo di verità. Tanto bello da meritare di essere l’inizio di questa storia.
Il sindaco si chiamava Piero Floriani ed era un professore universitario che all’inizio degli anni Novanta si prestò – come si suol dire – alla politica nella città dove insegnava, Pisa. Tenne la carica dal 1994 al 1998, all’epoca dei cosiddetti “sindaci-professori”, appoggiato da una coalizione larga che raccoglieva l’allora Pds, i Verdi, Rifondazione e altre liste civiche. Nella seconda metà del suo mandato, Floriani nominò come assessore alle politiche sociali un chirurgo, noto in città per avere rimesso in piedi il reparto di chirurgia d’urgenza dell’ospedale. Carlo Macaluso, questo il nome del luminare, sarebbe rimasto alla guida dell’assessorato per ben dodici anni, coprendo anche i due mandati del sindaco successivo, Paolo Fontanelli, uomo cresciuto a latte e Pci. La storia che sto raccontando ha un lungo e tormentato svolgimento nel corso di questi dodici anni. Ma l’inizio, quello epico, vede come protagonista assoluto l’assessore Macaluso.
Siamo nella seconda metà degli anni Novanta, le guerre in ex Jugoslavia sono appena terminate ma la situazione non è affatto risolta. Di lì a poco il governo D’Alema parteciperà all’intervento militare della Nato in Kosovo e ai bombardamenti in Serbia. La presenza in Italia di accampamenti di popolazione rom proveniente dalle aree del conflitto è aumentata, entrando a pieno titolo nel dibattito pubblico. Le amministrazioni comunali oscillano tra l’allestire campi attrezzati e lo sgomberare gli insediamenti più problematici. In un libro inchiesta lo scrittore pisano Antonio Tabucchi punta il dito proprio sulle responsabilità degli enti locali, in particolare del comune di Firenze. Gli zingari e il Rinascimento (1999) racconta il bisogno di superare quella che dai primi anni Novanta è stata definita come “l’urbanistica del disprezzo” o “urbanistica all’incontrario”. Le espressioni, coniate dagli studiosi della Fondazione Michelucci, indicano la responsabilità politica di aver scelto i luoghi più isolati e degradati per nascondere i rom (Zingari in Toscana, 1994). Sergio, che mi sta aiutando a mettere in fila i fatti, aggiunge che attorno alla comunità dell’Isolotto a Firenze proprio in quegli anni stanno maturando importanti mobilitazioni dei rom, con l’appoggio delle associazioni e del presidente di quartiere Eros Cruccolini. Insomma, è una fase in cui sono molte le voci e le esperienze che reclamano di andare oltre la politica dei “campi nomadi”.
In questo clima nasce l’idea di Carlo Macaluso. La leggenda vuole che il progetto maturi alla fine del mandato di Floriani, ma che si realizzi solo grazie all’emanazione della legge regionale n. 2 del 12 gennaio 2000, che ne garantisce la copertura politica e finanziaria, con l’accesso ai fondi europei. Nel 2002 viene ufficialmente aperto il progetto Città sottili, che ha l’obiettivo di costruire “alternative credibili alla politica dei campi”. Scopo del progetto è la sistemazione abitativa per i circa cinquecento rom allora presenti sul territorio comunale, attraverso l’inserimento in case popolari o l’acquisto di case e ruderi sul mercato immobiliare o dagli enti pubblici (da cui si spera di ottenere beni in comodato gratuito), oppure di terreni agricoli da riconvertire. Infine – e questo diventerà il simbolo stesso del progetto – è prevista la costruzione di un villaggio rom a Coltano, progettato dalla stessa Fondazione Michelucci, là dove in quel momento sorge un campo di sosta attrezzato; e in una seconda fase anche in un terreno nel vicino comune di Cascina. L’auto-costruzione e l’auto-recupero sono i tasselli che dovrebbero assicurare la partecipazione attiva delle famiglie rom e un risparmio per il progetto. Si prevede quindi il coinvolgimento di tutti gli enti pubblici presenti sul territorio, in primo luogo l’Università con il suo grande patrimonio immobiliare.
Chi ci ha lavorato o ha seguito da vicino la nascita di Città sottili, parla di Macaluso come di un assessore molto capace, con una visione ambiziosa dell’intervento pubblico: la sensazione di potenza e la possibilità di modificare la realtà è evidente nei documenti tecnici. “Il programma avrà la durata di tre anni, nell’arco dei quali è realistico pensare che si troverà una soluzione abitativa per almeno l’80% della popolazione rom attualmente presente sul territorio comunale di Pisa […] e praticamente per la totalità di quelli che riusciranno a ottenere un permesso di soggiorno entro la fine dell’anno”. C’è chi attribuisce all’incompetenza dello staff operativo la colpa di non avere ricondotto la grandeur di Macaluso a prospettive più limitate ma anche più realistiche. Altri imputano lo scontro tra visione e praticabilità ai tempi stretti dei mandati politici. Tre anni per dare la casa a quattrocento rom era sicuramente un obiettivo impossibile.
Uno svolgimento tormentato
In ogni caso il progetto partì con uno stanziamento di tre milioni di euro, la maggior parte dei quali previsti per l’inserimento abitativo, il resto per interventi di accompagnamento ai servizi. La “popolazione rom attualmente presente” a cui si riferivano i documenti era stata accuratamente registrata: un censimento del 2002 stabiliva chi fossero gli esclusivi beneficiari del progetto. Chi non si trovava a Pisa al momento del censimento, o chi sarebbe arrivato in seguito, venne escluso. La schedatura come criterio di elezione al godimento dei diritti, solco tracciato in un momento preciso tra un dentro e un fuori, è un elemento decisivo per capire questa storia. Gli operatori di tre cooperative sociali furono messi al lavoro sulle famiglie schedate, con percorsi individuali di mediazione sociale, scolarizzazione e avviamento professionale.
Da subito i problemi furono molti, a cominciare dal coordinamento tra cooperative animate da sensibilità talmente diverse da risultare a volte contrastanti. Due erano di matrice cattolica, una orientata alla riduzione del danno e all’ascolto mediante una relazione di prossimità, l’altra con un approccio educativo direttivo e paternalista; la terza cooperativa, di matrice laica progressista, centrata sull’affermazione dei diritti attraverso percorsi di crescita personale. I nuclei familiari inseriti nel progetto furono divisi tra le tre cooperative. Le differenze di approccio furono da subito evidenti alle famiglie, i cui molteplici legami di parentela e vicinanza erano rafforzati dall’intensa vita comunitaria nei campi. A produrre ulteriore confusione contribuirono i servizi sociali, animati da tutt’altra filosofia. Casi delicati per cui fu ritenuta necessaria la segnalazione agli assistenti sociali vennero presi in carico solo formalmente. Lo spirito del progetto non era condiviso dai responsabili dei servizi: la convinzione era che per i rom non potessero valere le stesse attenzioni che invece andavano rivolte agli italiani. Risposte simili vennero date anche in un centro antiviolenza a cui era stato portato il caso di una donna picchiata dal marito: bisogna rispettare le diversità, le “manate” non sono tutte uguali.
La situazione delle famiglie non era delle più facili e la mancanza di un lavoro di rete, di una continuità di intervento tra i servizi sociali, la scuola, la polizia municipale – che avrebbe dovuto intervenire nella prevenzione con un lavoro di prossimità, invece di apparire solo nelle operazioni di repressione – provocò negli operatori frustrazioni, incazzature, allontanamenti. Ne conosco molti che sono passati da una grande fiducia verso questo impegno, vissuto con un intenso coinvolgimento personale e professionale, a un profondo scoramento. Le criticità presenti nei nuclei rom non poterono essere neanche scalfite quando poggiavano su altre – e più profonde – criticità presenti nella società locale e nelle sue istituzioni. Fu denunciato ai carabinieri il caso di una bambina che presentava evidenti segni di abusi: il sospetto cadeva su un italiano di mezza età che frequentava la famiglia al campo e sosteneva con modi paternalistici di fare loro del bene. Dopo la denuncia i carabinieri sorvegliarono la situazione per un paio di mesi ma non notarono niente di strano, non riuscirono neanche ad avvistare l’uomo indicato. Comunicarono quindi agli operatori che, come da protocollo in questi casi, avrebbero interrotto la sorveglianza. Il giorno dopo l’italiano ricomparve al campo, più baldanzoso che mai. Alcune voci spiegarono poi che il padre della bambina era un informatore dei carabinieri. (continua…)
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