Lo scorso 6 maggio è stato pubblicato dalle Nazioni Unite il rapporto della Piattaforma intergovernativa su biodiversità e servizi ecosistemici (IPBES), l’equivalente dell’IPCC (il panel intergovernativo sui cambiamenti climatici) per la natura. È il primo dossier scientifico globale che valuta lo stato di salute della biodiversità planetaria e dei contributi della natura alle società umane, cioè di tutti quei “servizi” degli ecosistemi che fungono da spina dorsale del benessere sociale: cibo, acqua fresca, aria pulita, biomassa, risorse genetiche e medicine.
Come era prevedibile, i risultati sono poco rassicuranti: più di un milione di specie di flora e fauna rischiano l’estinzione entro le prossime decadi, mentre il 75% degli ambienti terrestri, il 40% di quelli marini e il 50% di corsi d’acqua e fiumi sono severamente degradati. Le cause non sono generiche “attività umane”, ma lo sfruttamento sfrenato degli ecosistemi per ossequiare l’imperativo di crescita infinita del capitalismo globale, in particolare cambio d’uso del suolo, estrazione di risorse e inquinamento. I cambiamenti climatici sono intrecciati sia alle cause che agli effetti della degradazione ambientale e del crollo della biodiversità, in un circolo vizioso che si autoalimenta. Anche per questa ragione, la pubblicazione del rapporto ha conferito ulteriore spinta e legittimità alle crescenti iniziative dal basso in diversi luoghi del pianeta affinché i governi locali e nazionali prendano sul serio la doppia crisi climatica e ecologica.
Il prossimo 24 maggio, il secondo Sciopero globale per il clima, che si prospetta ancor più partecipato e capillare del primo, darà il polso dell’intensità delle mobilitazioni. Già a fine aprile, due settimane di blocco del traffico nel centro di Londra da parte del movimento transnazionale Extinction Rebellion, in concomitanza con azioni di disobbedienza civile in circa ventiquattro paesi, hanno acuito la percezione che la pressione sociale organizzata porta i suoi frutti. È notizia di questi giorni che il parlamento inglese ha dichiarato l’emergenza climatica nell’intero paese, seguendo la Scozia e Galles e le centinaia di municipalità e governi regionali in Europa, Oceania e USA. Pur nell’incertezza di cosa esattamente tale emergenza comporti, sono passaggi rilevanti su cui occorre vigilare affinché diventino azioni concrete. A tale scopo, venerdì si sciopererà marciando per il clima e per l’ambiente, e si continuerà a farlo: per tenere il fiato sul collo ai governi e per vedere realizzati i cambiamenti necessari all’organizzazione materiale della vita. Poche cose sono più importanti. In fondo, ogni altra vertenza o sfida ha bisogno di un mondo abitabile per essere combattuta.
Pubblichiamo a seguire l’articolo La battaglia del clima, di Salvatore De Rosa, dall’ultimo numero (n.2 / aprile 2019) de Lo stato delle città.
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All’alba del 14 aprile 2018, David Buckel è uscito da casa sua a Brooklyn, New York, si è diretto al vicino parco pubblico e, dopo essersi cosparso di benzina, si è dato fuoco. Nell’e-mail inviata ai media prima di immolarsi, Buckel affermava: “La mia morte attraverso un combustibile fossile riflette quel che stiamo facendo a noi stessi”. Aveva sessant’anni e una prestigiosa carriera di avvocato alle spalle come sostenitore dei diritti civili delle persone LGBTQ, abbandonata per dedicarsi alla difesa dell’ambiente. Dirigeva un centro di compostaggio comunitario nel suo quartiere. Un contributo alla sostenibilità ecologica che a un certo punto non gli è sembrato più sufficiente dinanzi alla mancanza di risposte politiche commisurate all’inasprirsi della crisi climatica. Come i monaci tibetani, Buckel ha deciso di dare la vita per richiamare attenzione e per spingere all’azione. Un messaggio estremo, come estremi sono i nostri tempi.
Per quanto radicale possa sembrare il gesto di Buckel, una sobria valutazione dei dati pubblicati ormai quotidianamente dagli scienziati per spiegare le cause e prevedere gli effetti del cambiamento climatico in corso, fa luce sulla fonte di angoscia e rabbia da cui è sgorgato. L’evidenza di un aumento globale della temperatura media sulla Terra è indiscutibile. Diciassette dei diciotto anni più caldi mai registrati a partire dal diciannovesimo secolo si sono verificati tutti dal 2001. Dal 1880, da quando cioè la rivoluzione industriale si intensifica e propaga, la temperatura media globale è aumentata di quasi un grado. Il riscaldamento più sorprendente è nell’Artico: più 3,5°C. Il trend è ben visibile nei riverberi che comporta sull’intero sistema Terra: crescente acidificazione degli oceani, contrazione dei ghiacciai perenni, accelerazione dell’aumento del livello dei mari, e un proliferare – inspiegabile senza fare riferimento al climate change – degli eventi meteorologici estremi.
Dopo quarant’anni di osservazione dell’atmosfera e dei mari, il consenso scientifico è quasi unanime nell’indicare nelle attività umane la causa principale del riscaldamento in corso. Le emissioni di gas serra derivanti dall’uso di combustibili fossili sono la più rilevante di queste attività, mentre un quarto del riscaldamento è da imputare alla deforestazione. I gas serra – di cui il diossido di carbonio, o CO2, è il principale e più studiato – una volta immessi nell’atmosfera intrappolano l’energia derivante dal sole e proveniente dalla superfice. Maggiore la quantità di gas, minore è il calore rilasciato nello spazio, che quindi si accumula, fa salire la temperatura media e sconvolge il clima terrestre. Dallo studio degli archivi geologici e dei nuclei dei ghiacciai, sappiamo che la concentrazione di CO2 nell’atmosfera prima della rivoluzione industriale ammontava a 280 parti per milione. Intorno al 2013, per la prima volta in quattrocentomila anni, la CO2 è arrivata a 400 parti per milione. Tale aumento si spiega soltanto prendendo in considerazione, insieme ad altre concause antropogeniche, le emissioni di CO2 derivanti dall’uso massiccio di combustibili fossili.
Gli eventi atmosferici recenti sono in linea con le previsioni scientifiche degli anni Novanta sugli effetti di tale accumulo di gas serra. Anzi, si stanno realizzando con maggiore velocità e severità di quanto prospettato. Tempeste, siccità, alluvioni, uragani d’inusitata potenza, ondate di calore e altri eventi estremi sono frequenti dove prima erano rari o assenti. L’agricoltura mondiale è a rischio mentre la degradazione degli ecosistemi marini minaccia di causare reazioni a catena devastanti. Se la CO2 continua ad aumentare, la temperatura e gli impatti sul clima seguiranno a crescere. Già ora le società umane che abitano ecosistemi fragili ne subiscono gli effetti, e si prospetta un futuro incerto per tutti. Non ci sarà l’apocalisse in un giorno ma uno sfaldarsi graduale delle basi ecologiche che permettono la sopravvivenza di miliardi di persone – dalla temperatura, all’acqua, alla biodiversità –, con accelerazioni dovute al superamento di determinate soglie critiche e il rischio concreto di un collasso della civiltà come la conosciamo. Molto può essere fatto per scongiurare esiti ancora più estremi alle generazioni dei nostri figli e nipoti. Per fare ciò, da un lato occorre mitigare i cambiamenti climatici rimanendo al di sotto della soglia limite di due gradi centigradi di riscaldamento medio del pianeta; dall’altro, bisogna prepararsi ad affrontare alterazioni radicali degli ambienti e dell’atmosfera, ormai inevitabili per via dell’inerzia dei processi messi in moto. Questo il perimetro che, piaccia o no, definisce il campo di battaglia odierno. Ma chi e come sta lottando?
I leader mondiali si sono accordati sull’obiettivo di rimanere entro due gradi di cambiamento climatico tendendo, a partire dal 2020, verso l’azzeramento delle emissioni. Tuttavia, dal 2015, anno degli impegni presi a Parigi, l’estrazione e l’uso dei combustibili fossili è aumentato, gli Stati Uniti si sono sfilati dagli obblighi condivisi e nelle agende politiche nazionali una travisata caratterizzazione degli interessi a breve termine dei singoli paesi ostacola la cooperazione e dilaziona gli interventi. Pur nel moltiplicarsi di progetti volti idealmente a cambiare corso, la cornice per l’azione posta dai dogmi di mercato – crescita economica, competizione e profitto – ne inficia la spinta trasformatrice. In questa prospettiva distorta, la “sostenibilità” invocata in ogni documento governativo e nella pubblicità dei marchi risulta un guscio vuoto utile a veicolare rinnovate opportunità di accumulazione, intercettando le aspirazioni di consumatori che vogliono sentirsi responsabili e svilendole allo stesso tempo nell’inutilità degli acquisti verniciati di verde. Nell’orizzonte capitalista, i disastri diventano opportunità d’investimento, la transizione ecologica la si fa pagare ai lavoratori e la tecnologia aggiusterà tutto.
Se tra i policy maker la dilazione è la regola e se le élite economiche si affrettano a “cambiare tutto così che tutto resti com’è” (pur costruendosi bunker di lusso in Nuova Zelanda), tra gli abitanti del pianeta cresce la consapevolezza di dover agire per evitare il peggio e, soprattutto, per affrettare la transizione necessaria e permearla con criteri di giustizia e equità. Uno degli esiti della crescente presa di coscienza e di parola è il climate strike, lo sciopero per il clima, un’arma pacifica che giovani e giovanissimi stanno utilizzando per smuovere l’inazione degli adulti. Lo scorso 15 marzo, circa un milione e mezzo di persone in centoventi paesi, soprattutto studenti ma anche sindacati, insegnanti e attivisti, si sono presi le strade per imporre all’agenda politica l’urgenza di agire. Le manifestazioni sono state ispirate dalla sedicenne svedese Greta Thunberg, che tutti i venerdì dall’agosto 2018 ha iniziato a saltare la scuola per posizionarsi in solitaria di fronte al parlamento del suo paese con lo scopo di spingere la classe politica a “dare priorità alla questione climatica”. In poco tempo, Greta è diventata un’eroina, senza abdicare alla radicalità delle richieste di cui sa fa portavoce. Non sappiamo se il mondo sarà salvato dai ragazzini, ma a loro va il merito di aver portato la protesta climatica nel dibattito mainstream con slogan chiari, piani indifferibili e la determinazione degli esclusi dalle decisioni.
Un altro effetto dell’aspirazione emergente in pezzi della società di prendere il cambiamento climatico sul serio è l’elezione di rappresentanti politici che portano nei luoghi decisionali programmi dettagliati di transizione ecologica dell’economia. Negli USA del negazionista Trump, la giovane democratica eletta al Congresso Alexandria Ocasio-Cortez ha da poco presentato il Green New Deal, un programma di investimenti pubblici e interventi statali, ora in discussione, che tenta di reimpostare un’economia a basse emissioni coniugata ad alti livelli di occupazione.
Strade e parlamenti sono luoghi decisivi di questa battaglia, ma le vere linee del fronte sono altrove. La miseria causata dalla degradazione socio-ambientale è già qui per gruppi sociali emarginati e impoveriti che insorgono nei conflitti ambientali in corso nel nord come nel sud del mondo. Lotte che sono nel migliore dei casi ignorate e nel peggiore represse con la violenza. Basta sfogliare gli oltre duemila settecento conflitti registrati nell’Atlas of Environmental Justice per averne un’idea. In tali luoghi di frizione ecologica si fronteggiano progetti rapaci di valorizzazione economica della natura e le alternative a questo sistema. In prima linea ci sono persone che proteggono i territori e gli ambienti da cui dipendono per vivere; lottano contro l’estrazione mineraria e di idrocarburi, il disboscamento, il turismo sregolato, l’agroindustria, le infrastrutture logistiche e molto altro, precisamente quei progetti e quei processi che alimentano il cambiamento climatico e che bloccano o ritardano i tentativi di transizione ecologica. Coalizioni multi-locali, come Leave the Oil in the Soil, Ende Gelände, Zero Waste, o i nostri No Triv, No Tav, No Tap e Stop Biocidio, guidano il conflitto agendo direttamente sui modelli di produzione, smaltimento, circolazione delle merci e consumo. Ciò di cui abbiamo davvero bisogno è una generalizzazione e un coordinamento delle vertenze ambientali locali, un loro raccordo con la rappresentanza politica e con la società civile, contro la frammentazione delle pratiche e delle alternative emergenti.
Una tappa importante di questo percorso è stata la “Marcia per il clima e contro le grandi opere inutili” del 23 marzo a Roma, in cui è si è imposta, per numeri e rivendicazioni, la moltitudine variegata di nuove comunità dissidenti cresciute nelle lotte territoriali. Sono i movimenti ambientalisti di base del nostro paese – maturi o sorti da poco – che portano l’unica proposta politica seria attualmente in circolo in Italia su clima e ambiente. Una sola grande opera: la messa in sicurezza delle zone idrogeologicamente e sismicamente fragili, l’aumento della resilienza urbana agli eventi atmosferici estremi, la riduzione delle disuguaglianze (una determinante cruciale degli impatti sociali dei disastri) e, soprattutto, l’adattamento delle città ai cambiamenti del clima. È sulle risorse pubbliche che verranno stanziate per tale compito che i movimenti devono ora intensificare azione e ricerca, in quanto, ancor più della mitigazione, l’accelerazione o meno della riduzione del danno determinerà il numero di morti e di rifugiati interni nel vicino futuro. Da parte sua, il governo italiano discute solo una bozza di piano per la riduzione delle emissioni e poco altro, un documento burocratico che interessa meno di tutti proprio agli attuali ministri, ossessionati da infrastrutture e crescita a ogni costo. Occorre invece pianificare, internalizzare i costi ecologici di tutte le attività economiche e raccogliere risorse dai grandi patrimoni per una transizione in spirito di solidarietà. Non sono esiti scontati, tutt’altro, e bisognerà guardarsi dal dirottamento delle rivendicazioni e dalla monetizzazione della catastrofe. C’è molto da fare e poco tempo. Bisogna iniziare subito, seguendo le tracce dei milioni di individui che, difendendo gli ecosistemi da cui dipendono, stanno dando a tutti la possibilità di sopravvivere ancora per un po’.
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